Libero Grassi. Amante delle buone letture e della cultura dell’impresa, cullava una grande ammirazione per la laboriosa borghesia del Nord Europa

Il 29 agosto 1991, a Palermo, il sole sembra alto da sempre. Un signore di 67 anni, capelli grigi, ben rasato, esce di casa dopo aver indossato una polo, un paio di pantaloni leggeri e dei sandali. E’ solo. Cammina a testa alta. Si chiama Libero Grassi ed è un imprenditore palermitano. Un imprenditore inconsueto, a dire il vero. Dirige la Sigma, una storica fabbrica di biancheria intima, boxer, slip, vestaglie, pigiami, dando lavoro a centocinquanta operaie. La Sigma è una camiceria storica, in città. Ha un ottimo campionario, clienti fidati e prestigiosi in tutta Italia, tempi di consegna rapidi e certi. Insomma, va bene. Grassi, invece, è un tipo anomalo, dicono. D’altra parte se sei nato nel 1924, l’anno in cui venne rapito e ucciso Giacomo Matteotti, e ti chiami Libero, non solo in memoria di uno zio anarchico, ma anche per riguardo allo stesso deputato socialista fatto fuori dai fascisti, strano devi venir su per forza. E’ di Catania, Libero. Ma all’età di 8 anni si è trasferito con i suoi a Palermo, nella capitale. Amante delle buone letture e della cultura dell’impresa, cullava una grande ammirazione per la laboriosa borghesia del Nord Europa, per quelli che pragmaticamente, razionalmente, a costo di enormi sacrifici e duro lavoro, in un sol colpo fanno quadrare i conti, danno lavoro, si tengono lontani dalla corruzione e dai compromessi politici e non chiedono aiuti o favori a chicchessia. E’ sposato, Libero. Con Pina Maisano, una donna minuta, occhi grandi e intelligenti, savoir faire innato e volontà di ferro. E’ lei che gestisce uno storico negozio di tessuti in centro. Ed è una fervida militante del Partito Radicale. Hanno due figli giovani, Alice e Davide.



Da un annetto Libero Grassi è diventato famoso. E’ andato persino in televisione, a Samarcanda di Michele Santoro, ha preso a rilasciare interviste sui quotidiani siciliani. Tutto è iniziato in un modo per nulla confortante, anzi decisamente preoccupante. Ad inizio d’anno, qualcuno, un fantomatico “geometra Anzalone”, gli ha telefonato per chiedergli il pizzo: 50 milioni così, sull’unghia. Al che Libero di nome e di fatto, ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al “caro estortore”, pubblicata sul Giornale di Sicilia: “ Caro estortore,” ha esordito “Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al ’Geometra Anzalone’ e diremo no a tutti quelli come lui”. Più chiaro di così! Grassi ha rifiutato la ‘protezione’ ed ha anche rifiutato di pagare il pizzo. Punto. Solo che, a questo punto, si è esposto, rischia di divenire un facile bersaglio. A meno che anche gli altri imprenditori, la Confindustria siciliana e non, le associazioni di categoria, i sindacati, istituzioni non decidano di stargli accanto, sostenendolo in una lotta che è anche una lotta per la legalità e per il lavoro, oltre che per la loro sopravvivenza. Dopo le sue denunce, 8 mafiosi sono stati arrestati. Grassi è stato invitato da Santoro, a Samarcanda. E’ stato l’11 aprile 1991. Così ha portato il suo caso davanti alla nazione. Ormai sta diventando un simbolo della lotta alla mafia. “Non sono un pazzo - ha dichiarato a Santoro - sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi”. Non solo. Con piglio sicuro, da imprenditore pragmatico abituato a vedersela con i numeri, ha aggiunto “Con le mie denunce, ho fatto arrestare otto persone. Se duecento imprenditori parlassero, milleseicento mafiosi finirebbero in galera. Non le sembra che avremmo vinto noi?” Ma è stato proprio a questo punto, cioè nel momento di massima esposizione mediatica, che ha avuto la netta sensazione di essere praticamente isolato. Se, da un lato, all’indomani della famosa lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia, attestazioni di solidarietà sono pervenute dal prefetto Jovine e dal questore di Palermo (mentre la Sigma veniva presidiata), dai sindacati e dalle ACLI, dal sindaco di Palermo e dal Centro di Documentazione ‘Peppino Impastato’; dall’altro, sono rimasti latitanti l’API (Associazione Piccole Imprese), l’Assindustria (l’associazione delle imprese di cui pur fa parte), il Coordinamento Antimafia.



In realtà, Grassi è stato lasciato solo da quelli a cui più teneva, i colleghi, l’associazione di cui da decenni fa parte, da quelli che si trovano sulla sua stessa barca e dai quali, ovviamente, si sarebbe aspettato aiuto e solidarietà. Ma così non è stato. E’ rimasto solo. Persino la stampa si è defilata. Un trafiletto su Repubblica, silenzio assordante del Sole-24 ore. L’Ora, il maggior quotidiano palermitano, ha titolato: “Ha detto no al pizzo e la città è con lui”. Figurarsi: la città se ne lava le mani, gli fa il vuoto attorno! Grassi lo sa. Riferendosi all’Assindustria, dalla quale evidentemente si attenderebbe la più convinta e fattiva solidarietà, ha dichiarato: “E’ come se la mia denuncia non li riguardasse. Ho avuto solo la telefonata di qualche amico e nulla più”. Secondo lui, Salvatore Cozzo, presidente dell’associazione, porta avanti la “politica dello struzzo”! Si è aperta una polemica. Cozzo ha replicato che non possono imporre agli associati di rifiutare di pagare il pizzo: non è il loro mestiere. Loro hanno altri obiettivi: primo tra tutti, la promozione dello sviluppo produttivo. “Non possiamo farci portabandiere solo della lotta alla mafia - chiosa - Abbiamo altri compiti, altri doveri”. Grassi ha tuonato: “Chi non denuncia è colluso con il racket delle estorsioni”. E Cozzo di rimando: “Gli imprenditori taglieggiati sono soltanto vittime e come tali devono essere tutelati. Nostro compito è chiedere alla polizia sorveglianza e controlli efficaci. E – conclude, acido - credo che la polizia abbia tutelato bene Grassi”.



E, sulle prime, è sembrato che i fatti dessero ragione al presidente.



Ai primi di aprile, qualche giorno dopo la chiusura della diatriba, una sentenza del tribunale di Catania, emessa dal giudice Russo, non ha lasciato adito a dubbi: pagare il pizzo non è reato, purché lo si faccia per tutelare la propria azienda e il proprio lavoro. Insomma, è una casus necessitatis: o ci si piega o si chiude. Meglio piegarsi, suvvia! Sulla vicenda, il 4 aprile Grassi ha rilasciato un’intervista a caldo all’Ora: “una sentenza gravissima. – ha commentato – E’ la legittimazione giuridica dei rapporti di convivenza-connivenza tra imprenditoria e mafiosi. Il giudice Russo ha in pratica ammesso che se i cavalieri catanesi non avessero intrattenuto rapporti con la mafia, non avrebbero potuto fare il loro lavoro di manager. Questo si traduce in una sorta di impunità collettiva, un’amnistia generale che giustifica passato, presente e futuro. Peggio: è un suggerimento preciso su come comportarsi di fronte alle offerte di Cosa Nostra.” Accennando alle conseguenze che la stessa sentenza avrebbe avuto per gli imprenditori, Grassi è stato chiaro: “Io ho avuto più problemi con loro (gli imprenditori, ndc) che con gli estortori. I miei colleghi mi hanno messo sotto accusa, dicono che i panni sporchi si lavano in famiglia. E intanto continuano a subire: perché lo so che pagano tutti. Secondo me essere intimiditi e collusi sul piano operativo è la stessa cosa. Alcuni confessano di subire per paura, altri si vantano delle loro conoscenze nel mondo dei pezzi da novanta. Sono atteggiamenti molto comuni: ma io penso che se ciascuno fosse disposto a collaborare con la polizia e i carabinieri, a denunciare, a fare i nomi dei taglieggiatori, il racket avrebbe vita breve.”



L’11 aprile c’è stata la trasmissione di Santoro. Il 14 ha rilasciato un’altra dichiarazione che non ha lasciato adito a dubbi: “L’associazione degli industriali non ha assunto ancora una posizione chiara sulla questione delle estorsioni. Il presidente dell’associazione l’ha detto davanti a tutti: la mafia è invincibile ed è inutile che un signor Libero Grassi prenda posizione senza tener conto di questa realtà. Lui non accetta le mie denunce. Ma desso ho preso una decisione: se entro un mese l’associazione non si muove, io mi dimetto.”



Proprio per cercare di far crescere il consenso attorno a Grassi e, soprattutto, non lasciarlo isolato, il 4 maggio i Verdi hanno organizzato un dibattito nella sala consiliare del comune di Palermo. Pochi i partecipanti: una trentina di persone. Oltre a Grassi, presenti l’imprenditore Salatiello della Keller e il presidente dell’API, Albanese. Salatiello e Grassi, da un lato, a perorare la necessità delle denunce, Albanese, dall’altra, a rintuzzare, annacquare, distinguere, scaricare barili di aria fritta. Il senso di ciò che sta accadendo è stato sintetizzato dall’intervento di Umberto Santino, presidente del Centro Impastato: “l’iniziativa, che doveva essere di solidarietà, sta servendo solo per rendere visibile ancor di più l’isolamento di Grassi e dei pochi che gli stanno accanto.” Oltre tutto, Grassi è senza scorta: bersaglio facilissimo.



A fine maggio, si è scomodata una giornalista tedesca, Katharina Burgi, della rivista Nzz Folio, recatasi a Palermo per ottenere impressioni e notizie sulla mafia. Tra le persone che ha incontrato, vi è stato Libero Grassi, l’imprenditore ormai famoso, in Europa e Usa, per il ‘gran rifiuto’ di pagare il pizzo. La giornalista dirà che è rimasta profondamente colpita dalla forza interiore di Grassi. Le è apparso deciso a lottare per la difesa dei propri interessi, con la speranza che il suo esempio sia l’inizio di una ribellione pacifica che sottragga l’Isola all’influenza di Cosa Nostra. Nel giro di qualche giorno anche il Washington Post, ha parlato di lui: “Sicilian businessman does the unthinkable: he says no to the mafia”, ha titolato.



Ma non è finita. Ai problemi, anzi, non c’è mai fine. E così, poco prima delle ferie estive, sono state le banche a mettersi di traverso. Ha chiesto dei finanziamenti, ma loro, le banche, fanno difficoltà. La Banca S. Angelo, per uno scoperto di 5 milioni di lire (insignificante a fronte di un fatturato di circa 7 miliardi) si è rifiutata di concedere un prestito. E’ chiaro che lo scoperto è un pretesto: la banca non vuole più avere rapporti con lui.



Alle 7,30 di quel 29 agosto Libero Grassi esce di casa per recarsi alla Sigma. Ma non ci arriverà. In via Vittorio Alfieri lo aspettano Marco Favaloro, in macchina, e Salvino Madonia, figlio del boss di Resuttana, che lo sta pedinando da una settimana buona. Madonia scende dall’auto, lasciando lo sportello aperto. Impugna una pistola a tamburo, un’altra ce l’ha infilata nei pantaloni dietro la schiena. E spara.



Subito dopo il delitto i Verdi e il Centro Impastato affiggono un manifesto eloquente: “LIBERO GRASSI, un uomo coraggioso che ha sfidato la mafia. Le istituzioni non lo hanno protetto, gli altri imprenditori non hanno seguito il suo esempio, l’antimafia parolaia ha taciuto. La sentenza di Catania che ha legalizzato il pizzo con l’assassinio del 29 agosto è sanguinosamente confermata. Cosa hanno fatto le forze politiche per valorizzare l’impegno civile di Libero Grassi? Cosa ha fatto il signor Prefetto per difendere Libero Grassi?”



Ai funerali, le operaie della Sigma e molti altri (ma non moltissimi), partecipano recando grandi mazzi di fiori. Il figlio Davide, sorprendendo tutti, portando la bara del padre, alza la mano a V, simbolo di vittoria. Intanto il 7 settembre il Sole-24 ore, quotidiano della Confindustria, rivolge un appello alle imprese. L’impresa dichiari guerra alla mafia è il titolo. L’appello sottolinea come il problema della mafia, delle tangenti o pizzo, della protezione appartengano ormai all’Italia intera. E’ nell’interesse degli stessi imprenditori intraprendere questa guerra, se non vogliono vedere le loro imprese distrutte dalla criminalità: non basta affidarsi alla polizia per ripristinare la legalità: occorre scendere in campo e spendersi in prima persona. “La rivolta degli imprenditori contro mafie e camorre d’ogni tradizione – conclude – è una rivolta in nome della loro stessa cultura d’impresa, fatta di mercato, competitività, regole trasparenti e certe. Laddove la cultura mafiosa per affermarsi, deve uccidere il mercato, impedire la competitività, imporre l’arbitrio.”



L’appello accoglie molti consensi ed adesioni. I giovani imprenditori si riuniscono a Palermo e il presidente dell’associazione, Aldo Fumagalli, seduto accanto a Davide Grassi, il figlio di Libero, ed al presidente dell’ACIO, Tano Grasso, dichiara: “La Confindustria applichi rigorosamente il codice etico.” Parole, consensi, tra luci ed ombre. Ad ottobre si costituisce a Palermo l’Osservatorio Libero Grassi per i fenomeni di racket. Ma resterà sostanzialmente sulla carta.



Nello stesso mese di ottobre viene varato il decreto 346/1991, reiterato con un altro decreto del 31 dicembre e diventato legge antiracket nel febbraio 1992 con il numero 172. Il decreto attuativo verrà approvato solo nell’agosto successivo. La legge istituisce un Fondo di solidarietà per le vittime del racket, ma inizierà ad operare solo nel 1993 e solo dopo enormi difficoltà logistiche e tecniche. Il ristoro è previsto fino al 70% dei danni patiti e non deve superare il miliardo di lire. La procedura non è agile, le richieste stentano: 60 nel ’92, 54 nel ’93. Il primo provvedimento sarà del marzo ’94.



Intanto nell’ottobre del ’93 vengono arrestati Salvino Madonia e Marco Favaloro. Saranno condannati per l’omicidio di Grassi. Favaloro, divenuto collaboratore di giustizia, racconterà tutte le fasi dell’omicidio. Madonia è al 41-bis, condannato anche per l’omicidio del poliziotto Natale Mondo. E dal dicembre 2009 è indagato anche per il fallito attentato a Falcone all’Addaura. Anche la moglie di Madonia, Mariangela Di Trapani, figlia del boss Ciccio, è finita in manette, accusata di aver preso il posto del marito nella gerarchia mafiosa. Nel maggio 2010 è stata condannata a 10 anni di carcere, pena ridotta a 9 l’ anno successivo, in appello. L’omicidio è per alcuni (pochi) una presa di coscienza, per molti una pagina da voltare in fretta, scomoda. L’11 settembre il Parlamento Europeo approva una risoluzione, in cui esprime profonda indignazione per l’assassino dell’imprenditore palermitano ed esprime il proprio cordoglio ai famigliari della vittima. Il Consiglio comunale di Lodi il 1 ottobre, intitola una piazza della città a Libero Grassi. Il 20 settembre si tiene una trasmissione a reti unificate RAI-Finivest che vede collaborare Michele Santoro e Maurizio Costanzo nella messa in onda di una puntata speciale dei rispettivi Samarcanda e Maurizio Costanzo Show in onore di Libero Grassi. La prima parte della puntata è dal teatro Biondo di Palermo e la conduce Costanzo, nella seconda parte il collegamento passa al teatro Parioli di Roma, padrone di casa Costanzo. Per il resto, però. La situazione è deludente. In primis, per l’azienda di Grassi, la Sigma. Nel Natale del 1991 c’è un’in iniziativa dell’associazione Agrisalus che organizza una campagna per far conoscere i prodotti dell’azienda. Pochi i risultati. La Sigma entra in crisi, cambia nome in Dali, dai nomi di Davide e Alice, passa alla Gepi, che la chiude. Riaprirà solo nel 2004 con il nome di Sigma Nuova, con a capo sempre Davide ed Alice.



L’esempio di Libero Grassi, intanto, è seguito da molti, ma non da tutti. Organizzazioni antiracket sorgono in varie parti d’Italia, una trentina in Sicilia (da Augusta a Palazzolo Acreide, da Capo d’Orlando a Francofonte, Catania, Siracusa, Ragusa, Barcellona, Vittoria), una decina in Puglia, alcune in Calabria e Basilicata, qualcuna anche nel Lazio. Ma questo è solo una goccia nel mare del racket, di cui resta ancora vittima il 32% dei commercianti a Napoli, il 30% a Palermo, il 27% a Bari, il 17% a Padova e Firenze, il 15% a Torino, il 13% a Milano, l’11% a Roma. In media, un commerciante su 5 paga il pizzo. Ancora oggi. Questo dicono i dati delle Camere di Commercio e delle Prefetture.



In questi anni, nonostante la novità di Libera nel 1995 e la bellissima realtà di Addiopizzo, associazione palermitana creata nel 2004, non sempre gli imprenditori e i commercianti, soprattutto del capoluogo siciliano, hanno dato prova di aver cambiato registro: nei processi agli estortori, le vittime non hanno collaborato e alcuni sono stati persino condannati per omertà.



Invece, altri hanno seguito l’esempio di Libero Grassi. Alcuni, purtroppo, fino al sacrificio finale, formando una cupa litania di caduti per mano mafiosa. Ricordiamoli, lo meritano. Il 21 aprile 1992, a Lucca Sicula, Agrigento, viene ucciso Paolo Borsellino, un imprenditore che si era opposto all’ingresso dei mafiosi nella propria ditta di calcestruzzi. Il successivo 17 dicembre anche il padre di Paolo, Giuseppe Borsellino, che aveva iniziato a collaborare con la giustizia per individuare gli assassini del figlio, viene colpito a morte. Un mese prima, a Gela, era stato ammazzato il commerciante Gaetano Giordano, mentre il figlio Massimo era stato ferito. Giordano si era opposto al racket. La vedova Franca Evangelista decide di restare a Gela, in difficili condizioni, nel mezzo di una guerra di mafia tra Cosa Nostra e Stidda. Un altro imprenditore palermitano, Innocenzo Lo Sicco, è costretto invece all’esilio. Prima pagava il pizzo senza fiatare, poi si è stufato ed ha denunciato gli estortori ed è andato via. Successivamente è tornato per testimoniare contro i mafiosi ed ha messo su un’associazione antiracket. Intanto, nel novembre 1994 minacce arrivano alla vedova di Grassi. Passa un anno e il 30 agosto 1995, a Nicolosi, catania, viene ucciso il commerciante di formaggi Antonino Longo. Ancora tre mesi e il 29 novembre viene ammazzato ad Avola (Siracusa) l’imprenditore Antonino Buscemi. Per gli investigatori, o si è rifiutato di sottostare al racket imposto dalle cosche aretusee o si è aggiudicato lavori già assegnati ad altri. Nel giugno del 1997 i killer raggiungono, a Palermo, il costruttore Angelo Bruno. Si pensa ad un’altra vittima del racket. I famigliari avvalorano questa tesi, anche se il costruttore non ha mai parlato, neanche in casa, di richieste di pizzo. Ad Alcamo, Trapani, il successivo 12 settembre si suicida il commerciante Gaspare Stellino: non se la sente più di testimoniare contro gli estortori. Il 3 novembre 1999, a Sant’Angelo Muxaro, Agrigento, viene assassinato Vincenzo Vaccaro Notte, imprenditore che, insieme al fratello Salvatore gestiva una ditta di pompe funebri. Salvatore, a sua volta, verrà freddato tre mesi dopo, il 5 febbraio 2000: entrambi hanno rifiutato di piegarsi alle estorsioni. Il triste rosario continua: il 6 dicembre 2001 viene ucciso a Calatabiano (Catania) il commerciante in pensione Carmelo Benvegna. Ha denunciato e fatto arrestare alcuni estortori ed è già sfuggito ad un agguato. Il 23 ottobre 2003 tocca al commerciante nisseno Michele Amico, attirato in campagna e ucciso a bruciapelo.



Ma, ciò nonostante, qualcosa si è mosso. Dal 2004, la Cooperativa Soldaria, in collaborazione con Confcommercio, lo Sportello Legalità della Camera di Commercio di Palermo e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, organizza il “Premio Libero Grassi”, sui tema della legalità e della lotta al racket ed alle mafie, rivolto alle scuole italiane di ogni ordine e grado.



Dal 1993 il VII I.T.C. di Palermo è intitolato a Libero Grassi., mentre in varie città d’Italia sono sorte vie e piazze a lui dedicate, da Palermo a Enna, da Osnago e Olgiate (LC) a Isola della Scala (VR), da Foggia a Rivoli (TO), da Muggiò (MI) a Cosenza, a Piazza Armerina. La libertà comincia anche da qui, dal riprendersi in mano memoria, luoghi e destino personale. Restando sempre uomini, a schiena dritta. Giacché, come diceva Libero, se ognuno di noi facesse il proprio dovere, senza piegarsi, non vinceremmo noi?
Fonte: http://www.girodivite.it/Libero-Grassi,17803.html

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